In fondo la storia pittorica è proprio una. Secondo Giorgio Vasari il pittore “debbe distinguere i gesti e l’attitudini” e ottenere “una concordanza unita che dia terrore nelle furie e dolcezza negli effetti piacevoli, e rappresenti in un tratto la intenzione del pittore”. Poi il gesto non è più oggetto di rappresentazione ma, sintetizza Gérard Schneider, “il mezzo tecnico diretto alla realizzazione dell’istante vissuto. È il gesto che sotto l’impulso dell’interiorità crea la forma [... ] Se il gesto è solo automatico, senza necessità interiore, il suo grafismo sarà gratuito e frammento d’un repertorio limitato”.
Peter Fitze non ha mai creduto alla dissoluzione antagonista della forma in nome del nonsenso del tracciare, bensì, all’opposto, in un fare culturalmente motivato e distillato sino a farsi segno sorgivo, insieme fisicissimo e astrattissimo, la cui vita sia, per citare Emilio Vedova, “urto di verità”, espressività infinita nella materia pittorica: dolore ed eros, melanconia ed eccitazione, dolcezza e dramma.
Fedele nei decenni a tale principio, etico prima ancora che stilistico, egli è giunto a distillare una sorta di economia cromatica del segno: una gamma serrata di toni – penso ai blu, ai gialli, alla pienezza dei neri, ai bianchi stremati – e un costituirsi dell’immagine come costrutto elaborante e brusco, edificato da gesti brevi e concentrati: il tracciato non è un dar forma, ma è la forma stessa, il suo farsi spazio e clima coloristico nei rapporti in consonanza e in dissonanza che esso instaura con il fondo.
Fitze ha scelto, così, di porsi nel solco di quella che molti considerano la miglior tradizione astratta: non metamorfosi lirica della sensazione, neppure – come voleva la tradizione concretista – pura fantasmagoria intellettuale, ma l’epifania hic et nunc di uno stato insieme fisico e mentale che è, esattamente, la parola poetica dell’artista, il coagulo decisivo del senso.
È stata una conquista per gradi, per Fitze, muovendo da un momento primario di intenzionalità sino a giungere all’attuale unità inestricabile body-and-mind, condizione unica in grado di consentire questo accordo di immediatezza e mediatezza assoluta, di pulsione incontrollabile e di costitutiva ragione genetica dell’opera.
Si può ben constatare come Fitze abbia in gran sospetto ogni captazione sensoriale epidermica. Il suo quadro nasce per gesti e coloriture inameni, sottilmente disagiati, scavati e trovati un una condizione emotiva asciutta e, verrebbe da dire, scarnificata. Ma questa è la condizione stessa del suo esprimere, non una mera scelta stilistica.
Nessun compiacimento fabrile può farsi sostituto del mood che alimenta, esclusivo, il suo fare. Autonomia del segno e del colore ne significa, inderogabilmente, la responsabilità, l’identificazione piena con il flusso vitale che spinge l’artista, senza che alcuna clausola retorica si frapponga tra l’avvertimento profondo che spinge a fare e la pienezza consapevole del gesto che fa.
Più che uno sguardo, Fitze chiede allo spettatore una consonanza affettiva, la
disponibilità a entrare in consonanza con la sua distillatissima, intensa, tensione verso il senso.
Flaminio Gualdoni, Milano, aprile 2014