La collezione d’arte contemporanea del Comune di Bioggio:
l’eco di una comunità.
In quasi 22 anni 86 mostre di cui 49 con catalogo, una media di 4 eventi l’anno che hanno coinvolto 50 critici, poeti e artisti per le presentazioni e hanno proposto almeno 4'000 opere alla fruizione collettiva: in questi numeri sta la storia espositiva del Comune di Bioggio svolta nel Municipio dopo la ristrutturazione ultimata nel 1999.
Il progetto, promosso dalla collettività, si è realizzato attraverso il contributo di Ferruccio Frigerio, che già in un articolo apparso su un quotidiano nel 2013 è stato considerato cuore e azione dell’iniziativa.
Questa sintetica, ma anche puntuale definizione ci fornisce la testimonianza di un esteso e continuativo impegno da parte di chi a suo tempo ha contribuito a porre le linee guida per le mostre, cioè la generosa messa a disposizione da parte dell’ente pubblico di uno spazio espositivo adeguato agli artisti moderni e contemporanei ticinesi, il lavoro di chi conseguentemente ha valutato le singole scelte espositive attraverso una costante partecipazione al contesto artistico e culturale cantonale e di chi ha realizzato, di volta in volta, gli allestimenti impostati sulle singole esigenze coordinando i gruppi di lavoro e seguendo la redazione grafica dei cataloghi affidata alla figlia Amalia e i contatti con la stampa.
Essenziale nel progetto è stato il cuore, in altre parole la passione, la fede per i nostri artisti. È grazie a questo che col passare delle stagioni si è dato forma a quello che si è rivelato essere un contributo autorevole e concreto nella salvaguardia di un’identità a cui purtroppo raramente chi si occupa di queste cose si presta se è vero che nei decenni trascorsi, essenzialmente rivolti alle contaminazioni artistiche proprie della globalizzazione, le proposte museali sono radicalmente cambiate nella direzione del richiamo di un pubblico sempre più vasto e le associazioni artistiche, quali la SPSAS, oggi Visarte, a partire dal nuovo millennio si sono completamente rivoluzionate adeguandosi a nuove esigenze comunicative sia dal profilo tecnico che concettuale.
Iniziative come queste sono diventate allora essenziali nella preservazione di un retaggio culturale recente e nel riconoscimento di quelli che chiamiamo valori locali.
Nell’impegno profuso e nella continuità, ma anche nei documenti prodotti, quanto è stato fin qui fatto qui compendia alcuni dei contributi fondamentali alla cultura artistica del secondo dopoguerra nel Cantone quali le quasi 250 mostre della Galleria Mosaico diretta da Gino Macconi a partire dai primi anni Sessanta o quelle della Galleria Tonino di Campione d’Italia, condotta per 47 anni da Antonio Giannattasio a partire dal 1967 e a cui si prestò il critico d’arte Eros Bellinelli.
In un periodo non facile per la comunicazione d’arte, anche a causa della contingenza pandemica del momento, per Bioggio è maturato il momento per ritagliarsi un breve periodo di riflessione su cui calibrare i futuri interventi e proporre un bilancio sul lavoro svolto.
Si è così deciso di allestire una prima mostra della collezione d’arte che si è formata in questi due decenni, riproponendo 35 artisti che qui hanno esposto, fra essi 8 scomparsi di cui qualcuno va considerato storico avendo contribuito a caratterizzare, segnare almeno un mezzo secolo della nostra cultura.
Fra questi citiamo Ugo Cleis (Diepflingen 1903-1976 Mendrisio), uno dei maestri della calcografia svizzera dagli anni Quaranta agli anni Sessanta e poeta, lui venuto d’oltralpe, del paesaggio del Mendrisiotto di cui ci ha lasciato impronte memorabili assieme a un Ernst Max Musfeld o un Samuel Wülser; poi Luigi Taddei (Brè sopra Lugano 1898-1992 Albonago) che al Municipio di Bioggio ha affidato una sua testimonianza di rilievo nella sala del consiglio comunale col grande dipinto su 3 pannelli dal sapore nostalgico che delineano il paese con le sue campagne e il lavoro contadino e, sul pannello di destra, la più recente industrializzazione. Accanto a questi vorrei ricordare un artista mai abbastanza considerato quale Hermanus van der Meijden (Utrecht 1915-1990 Neggio) che viveva in condizioni modeste in una vecchia casa di Neggio del quale ricordo la fisionomia con la sua barba lunga quasi da eremita e che è stato tra i primi pittori astratti nel luganese del secondo dopoguerra rimanendo sempre coerente e fedele a una precisa impronta stilistica memore di uno dei pionieri internazionali dell’arte astratta, Alberto Magnelli.
D’obbligo ancora citare quella meteora che usciva dagli schemi del suo tempo ed è stata capace per qualche anno a cavallo verso il 1980 d’affascinare un vasto pubblico non solo ticinese, quel Hans Binz (Soletta 1949-2001) di cui ci ricordiamo ancora bene, e una deliziosa Mucci Patocchi Staglieno (Genova 1929-2006 Breganzona), forse meno ricordata, ma che è stata una pittrice dal tratto sottile, specie nelle sue delicate incisioni, ma anche essenziale e rigorosa nell’impaginazione, capace, proprio per questa sua sintesi formale, d’affidarci pagine memorabili.
A questo piccolo nucleo si aggiungono artisti contemporanei in cui coesistono da due a tre generazioni, e in cui la comunicazione è andata spaziandosi in ambiti sempre più variegati, dove tutto convive a riflesso di una società sempre più complessa e individualista.
Una sintassi stilistica ulteriormente frammentata ha dato così origine a un caleidoscopio stilistico. All’informale ancora classico, ancora sulla linea dell’autorevole scuola lombarda del secondo dopoguerra di un Gianni Realini (Sorengo 1943- ) o quello più nordico di un Peter Fitze (Teufen 1952- ), si affiancano con naturalezza le trame vibranti fatte di trasparenze e accostamenti calibrati di una Felicita Duyne (Zurigo 1958- ) o di una Loredana Müller (Mendrisio 1964- ).
In Margareth Perucconi (Soletta 1940- ) la visione del reale appare sospesa nella liricità diventando un racconto sul limite di un simbolismo orientaleggiante, mentre in Eftim Eftimovski (Carev Dvor 1949 ) questo è aspro, mordente, ed ancora in un Marco Prati (Viganello 1955- ) si lascia andare alle sinuosità eleganti del segno e in Marco Lupi (Mendrisio 1958- ) riposa sulla concretezza di un immaginario popolare quasi che le sue immagini fossero graffiate su un vecchio muro.
In alcuni autori la testimonianza offerta è sostanzialmente critica, e può diventare lacerante nelle potenti pennellate e segni urgenti di un Fra Roberto (Bellinzona 1933- ) col suo grido che rivendica la pietas o in un Antonio Lüönd (Lugano 1947- ) che coltiva, letteralmente coltiva, il suo disegnare legato a un espressionismo in senso lato che corresottotraccia da un Goya a Johann Robert Schürch, a Edmondo Dobrzanski, per stare alle nostre latitudini. Infine la liricità del dittico di Sergio Piccaluga (Varese 1934- ).
Queste parole introduttive alla mostra, che troppi autori hanno dimenticato, rimandano ogni ulteriore considerazione alla fruizione della mostra che nel suo insieme offre uno spaccato, pur parziale, della complessità contemporanea e con essa della nostra stessa identità in cui ogni centralità si è persa nel dubbio e nelle incertezze.
L’arte ci offre una testimonianza e quella che ci è prossima riflette la nostra condizione stessa assurgendo ad eco, a quella voce che resterà nel tempo di una comunità, delle sue aspirazioni e dei suoi timori.
Soffermandoci su quest’ultimo aspetto la raccolta che qui comincia ad esser sottoposta al pubblico trova la sua ragione e cifra diventando un’occasione di confronto non solo con degli artefici, ma alla fine anche con noi stessi.
Paolo Blendinger
Torricella, 18 gennaio 2021